• 19 April 2024

Il controcanto arriva dai numeri: non c’è nessuna invasione di stranieri, men che meno una sottrazione di posti di lavoro agli italiani. Anzi, nel nostro Paese accade l’opposto. Lo dice con chiarezza cristallina il XII Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa. Che, dati alla mano irrompe nel dibattito pubblico con una perfetta sincronia nel raccontare l’altra immigrazione in Italia, quella carente, quella che manca.

Crescono i permessi per lavoro

Sembrerebbe una buona notizia quella che arriva dalle quote dei permessi di soggiorno. “Dopo le chiusure del 2020, nel 2021 tornano a crescere – dice il rapporto -: 274 mila, più del doppio dell’anno precedente. In ripresa, soprattutto, gli ingressi per lavoro, passati da 10 mila a oltre 50 mila e pari al 18,5% dei permessi totali”. Ma l’integrazione in Italia è ancora immatura visto che “il primo canale di ingresso per gli immigrati in Italia è il ricongiungimento familiare (44% dei nuovi permessi)”. Per motivi di lavoro invece latitano: sono 8,5 ogni 10mila abitanti mentre nella Ue arrivano a quota 29,8. Gli ingressi per lavoro in Italia (8,5 ogni 10.000 abitanti) rimangono a un livello molto più basso rispetto alla media Ue (29,8). Se poi si guarda il numero dei residenti, gli stranieri sono 5,2 milioni e cioé l’8,8 per centro della popolazione.Con buona pace dell’invasione. Inoltre, spiega la Fondazione Moressa, “gli occupati stranieri nel 2021 sono 2,26 milioni, pari al 10% del totale. Il tasso di occupazione, calato bruscamente nel 2020, rimane più basso di quello degli italiani (57,8% stranieri, 58,3% italiani)”.

Mercato del lavoro “complementare”

Le diseguaglianze, tutte a detrimento del mercato del lavoro interno, si misurano anche sulla qualità del lavoro: e se il 37,5% degli italiani svolge attività qualificate e tecniche, quando si fa riferimento agli stranieri questa quota precipita inesorabilmente a quota 7,8% degli stranieri. Interessante il dato inverso: i lavoratori non qualificati, dice il Rapporto, sono l’8,5% tra gli italiani e il 31,7% tra gli stranieri. Ma teniamoci forte, perché nonostante la concentrazione in fasce medio-basse del lavoro (con picchi nel lavoro povero), gli immigrati producono 144 miliardi di valore aggiunto, dando un contributo al Pil pari al 9%. L’incidenza sul Pil aumenta sensibilmente in agricoltura (17,9%), ristorazione (16,9%) ed edilizia (16,3%).

Inoltre se si guarda all’imprenditoria, sono il 10% del totale. E in totale, su dieci anni (dal 2011) rappresentano una considerevole quota, pari al 31,6% del totale, mentre gli italiani subiscono un calo dell’8,6%.

Impatto fiscale ancora attivo

Non esiste, secondo il Rapporto, nemmeno uno squilibrio nel bilancio sulle casse dello Stato. “Nonostante la pandemia abbia determinato un calo nei redditi dichiarati da contribuenti immigrati (-4,3%) – spiega la Fondazione – il saldo tra il gettito fiscale e contributivo (entrate, 28,2 miliardi) e la spesa pubblica per i servizi di welfare (uscite, 26,8 miliardi) rimane attivo per +1,4 miliardi di euro”. E dunque se ne conclude che gli immigrati “danno” più che “prendere”.

Il capitale umano in panchina: donne e giovani

Infine, secondo il dossier, per tornare ai livelli occupazionali pre-Covid, l’Italia avrebbe bisogno di circa 534 mila lavoratori. “Considerando l’attuale presenza straniera per settore – recita il Rapporto – il fabbisogno di manodopera straniera sarebbe di circa 80 mila unità”. Dove prendere la quota mancante? Dove reperire le forze? La risposta è quasi banale. Nel capitale umano che resta in panchina, ai margini, senza una chance: e cioé le donne e i giovani. “Per eguagliare la media europea dovrebbero entrare nel mercato del lavoro 1,2 milioni di donne”. Il fenomeno è noto: il 40% delle donne inattive non lavora per gestire la casa, i figli o gli anziani.

E perché la retribuzione è talmente bassa che non conviene uscire dalle mura domestiche, con il tasso di condivisione del lavoro di cura che si registra e che non consente un’uguale ridistribuzione dei pesi.

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